lunedì 31 dicembre 2012

J. Krishnamurti


J. Krishnamurti

Saggio di Aldous Huxley


L'uomo è un anfibio che vive simultaneamente in due mondi: quello che trova e modella, il mondo della materia, della vita e della coscienza, e il mondo dei simboli. Nel pensare impieghiamo una vasta gamma di sistemi simbolici: linguistici, matematici, figurativi, musicali, rituali. Senza tali sistemi non avremmo né arte, né scienza, né legge, né filosofia, e neppure i rudimenti stessi della civiltà: saremmo, in altri termini, animali.

Pertanto i simboli sono indispensabili. Ma - come dimostra tanto copiosamente la storia della nostra epoca e di qualsiasi altra - i simboli possono pure essere fatali. Si consideri, ad esempio, da un lato il campo della scienza, dall'altro il campo della politica e della religione. Pensando nei termini di una serie di simboli, ed agendo in risposta solo ad essa, siamo pervenuti in qualche misura, peraltro assai piccola, ad intendere e controllare le forze elementari della natura. Pensando nei termini di un'altra serie di simboli, ed agendo in risposta ad essa, impieghiamo tali forze come strumenti per l'assassinio in massa e il suicidio collettivo. Nel primo caso i simboli chiarificatori sono stati ben scelti, analizzati con grande accuratezza e adattati progressivamente ai fatti principali dell'esistenza fisica. Nel secondo caso i simboli, originariamente scelti male, non sono mai stati sottoposti ad un'analisi esauriente, non sono stati mai riformulati in modo da armonizzarsi con i fatti fondamentali dell'esistenza umana. Peggio ancora: questi simboli mistificatori sono stati ovunque trattati con una specie di reverenza del tutto immeritata, come se, in un qualche misterioso modo, fossero piú reali delle realtà cui si riferivano. Nei contesti della religione e della politica, le parole non sono considerate come segni che rappresentino, piuttosto inadeguatamente, cose ed eventi; all'opposto, cose ed eventi sono considerati esplicazioni particolari delle parole.

Fino ad oggi i simboli sono stati impiegati realisticamente soltanto in quei campi che, secondo il nostro convincimento, non sono di importanza suprema. In tutte le situazioni che impegnano i nostri impulsi piú profondi ci siamo invece intestarditi ad usare i simboli non semplicemente in modo non realistico, ma addirittura in modo idolatrico, anzi insano. Ne è derivato che siamo stati capaci di commettere a sangue freddo, e per lunghi periodi di tempo, atti dei quali i bruti sono capaci soltanto per brevi istanti e nell'acme frenetica dell'ira, della libidine o della paura. Per il fatto di usare e adorare simboli, gli uomini possono diventare idealisti; ed essendo idealisti, possono tramutare la brama temporanea, propria degli animali, negli imperialismi grandiosi di un Rhodes o di un j. P. Morgan; l'effimero gusto di tirannia, proprio degli animali, nello stalinismo o nell'Inquisizione di Spagna; l'attaccamento saltuario al proprio territorio, proprio degli animali, nelle frenesie premeditate del nazionalismo. 

Fortunatamente possono pure trasformare la temporanea mansuetudine degli animali nella carità instancabile di una Elizabeth Fry o di un Vincenzo de' Paoli; l'effimera devozione degli animali al proprio compagno ed ai piccoli nella collaborazione ragionata e tenace che, fino ad oggi, si è dimostrata abbastanza solida da salvare il mondo dalle conseguenze dell'altra e disastrosa sorta di idealismo. Ma ciò potrà continuare a salvare il mondo? Alla domanda non si può dare risposta. Tutto quel che si può dire è che, con la bomba atomica nelle mani degli idealisti del nazionalismo, le probabilità in favore degli idealisti della collaborazione e della carità hanno subito una brusca riduzione.

Anche il miglior libro di cucina non sostituirà mai un pranzo, sia pure il peggiore: la cosa sembra abbastanza ovvia. Eppure, in tutte le età, i filosofi piú profondi, i teologi piú dotti ed acuti sono sempre caduti nell'errore di identificare coi fatti le proprie costruzioni puramente verbali, o in quello, ancor piú enorme, di immaginare che i simboli siano, in qualche modo, piú reali di ciò che rappresentano. Questo culto della parola non è stato scevro di proteste. "Lo spirito solo", dice San Paolo, "dà la vita; la lettera uccide". "E perché", domanda Eckhart, "perché cianciate di Dio? Qualsiasi cosa diciate di Dio è falsa". All'altro capo del mondo, l'autore di uno dei Mahayana Sútra affermava che "mai la verità è stata predicata dal Buddha, che vedeva come dobbiate rendervi conto di essa entro voi stessi". Tali affermazioni vennero considerate profondamente sovversive, e la gente benpensante le ha ignorate. La strana sopravvalutazione idolatrica delle parole e degli emblemi proseguì indisturbata. Le religioni sono declinate; ma l'antica abitudine di formulare credi e di imporre la fede in certi dogmi è persistita, persino tra gli atei.
Negli ultimi anni, logici e semantici hanno effettuato un'analisi assai approfondita dei simboli nei cui termini gli uomini compiono l'operazione del pensare. La linguistica è divenuta una scienza, ed è possibile persino dedicarsi allo studio di un campo cui il defunto Benjamin Whorf ha conferito il nome di meta-linguistica. Tutto ciò è ottimo; ma non è abbastanza. La logica e la semantica, la linguistica e la metalinguistica, sono discipline puramente intellettuali. Analizzano i diversi modi, corretti o meno, significativi o meno, secondo i quali le parole possono venir poste in relazione con le cose, i processi e gli eventi. Ma non offrono alcuna guida nei riguardi del problema, assai piú fondamentale, del rapporto dell'uomo nella sua totalità psicofisica, da un lato, con i suoi due mondi, quello dei fatti e quello dei simboli, dall'altro.

In qualsiasi luogo e in qualsiasi epoca storica questo problema ha ripetutamente trovato soluzione da parte di singoli uomini e donne. Sia pure parlando o scrivendo, queste persone non creavano sistemi: perché sapevano che qualsiasi sistema costituisce una tentazione continua a prendere i simboli troppo sul serio, a concedere maggiore attenzione alle parole che alle realtà che si suppone le parole rappresentino. Mai il loro fine è stato di offrire panacee e spiegazioni belle e fatte; ma di indurci a diagnosticare e curare le nostre proprie malattie, a far sì che si giunga a quel punto, ove il problema dell'uomo e la sua soluzione si affacciano direttamente all'esperienza.
In questo volume, che raccoglie una scelta degli scritti e delle conversazioni registrate di Krishnamurti, il lettore troverà un'impostazione chiara e moderna del problema fondamentale dell'uomo, e insieme un invito a risolverlo nell'unico modo in cui esso è solubile: da sé, e per se stessi. Le soluzioni collettive cui si appunta tanto disperatamente la fede di tanti, non sono mai adeguate. "Per comprendere la miseria e la confusione che esistono dentro di noi, e dunque nel mondo, anzitutto dovremo trovare chiarezza dentro di noi; e a quella chiarezza si giunge pensando correttamente. Tale chiarezza non va organizzata, poiché non la si può scambiare con altri. Il pensiero organizzato, di gruppo, è puramente ripetitivo. La chiarezza non è il risultato di un'asserzione verbale, ma di un'autocoscienza acuta e di un retto pensare. Il pensiero retto non è il derivato, o la mera coltivazione, dell'intelletto, e neppure è conformismo rispetto ad uno schema, per quanto nobile e degno sia lo schema. Il pensiero retto si accompagna all'autocoscienza. Senza intendere noi stessi, non avremo alcuna base per pensare; senza la conoscenza di sé, quel che si pensa non è vero".

Questo tema fondamentale viene sviluppato da Krishnamurti passo per passo. "La speranza sta negli uomini, non nella società, non in alcun sistema, non nei sistemi religiosi organizzati, ma in voi ed in me". Le religioni organizzate, con i loro riti, non offrono che una soluzione falsa al problema fondamentale. "Quando citate la Bhagavad Gita, o la Bibbia, o un qualche testo sacro cinese, non vi è dubbio che state semplicemente ripetendo, non vi pare? E quanto viene ripetuto non è la verità. È menzogna, perché la verità non la si può ripetere». Si può diffondere, proporre, recitare una menzogna, ma non la verità; e quando si ripete la verità, essa cessa di esserlo, e pertanto i libri sacri non hanno valore. È attraverso l'autocoscienza, non attraverso la fede nei simboli di qualcun altro, che si giunge alla realtà eterna, nella quale l'essere dell'uomo è fondato. La fede nell'adeguatezza totale e nel valore supremo di un qualsiasi sistema precostituito di simboli non conduce alla liberazione, ma alla storia, ad un'iterazione sempre delle medesime, antiche sciagure. "Inevitabilmente la fede separa. Se avete una fede, o quando ricercate la sicurezza nella vostra fede particolare, vi separate da coloro che ricercano la sicurezza in qualche altra forma di fede. Tutte le fedi organizzate si fondano sulla separazione, sebbene, magari, predichino la fratellanza". Chi abbia risolto con successo il problema delle sue relazioni con i due mondi, dei dati di fatto e dei simboli, è un uomo che non ha fedi. Per quanto riguarda i problemi della vita pratica egli mantiene una serie di ipotesi di lavoro, che servono ai suoi scopi, ma che non vengono prese più seriamente di qualsiasi altra specie di utensile o strumento. Per quanto riguarda gli esseri suoi simili e la realtà nella quale si fondano, egli ha le esperienze dirette dell'amore e della comprensione. È appunto per proteggersi dalle fedi che Krishnamurti "non ha letto nessuna forma di letteratura sacra, né la Bhagavad Gità né le Upanishad". Noialtri neppure leggiamo letteratura sacra: leggiamo i nostri giornali, riviste, romanzi gialli favoriti. Ciò significa che ci accostiamo alla crisi del nostro tempo non con amore e penetrazione, ma con "formule, sistemi» - ben poveri sistemi e formule, quanto a questo. Ma "gli uomini di buona volontà non dovrebbero avere alcuna formula"; poiché le formule conducono inevitabilmente soltanto ad un "pensare cieco". La predilezione per le formule è pressoché universale. Il che è inevitabile; poiché "il nostro sistema educativo si fonda su che cosa pensare, non su come pensare", Siamo educati come membri credenti e praticanti di una qualche organizzazione - quella comunista, o quella cristiana, musulmana, indù, buddista, freudiana. Di conseguenza, "voi reagite ad una sfida che è sempre nuova secondo uno schema antico; e pertanto la vostra reazione non ha la validità, la novità, la freschezza corrispondenti. Se reagite come cattolici o come comunisti, state reagendo - non è vero? - secondo un pensiero schematizzato. Perciò la vostra reazione non ha significato. E l'indù, il musulmano, il buddista, il cristiano, noti ha forse creato questo problema? Come la religione di oggi è il culto dello Stato, così la religione antica era il culto di un'idea". Se reagite ad una sfida secondo il condizionamento antico, la reazione non vi porrà in grado di comprendere la sfida nuova.

Perciò quel "che si deve fare, per raccogliere la nuova sfida, è spogliarsi interamente, denudarsi completamente del nostro background e raccogliere la sfida daccapo".

In altri termini, i simboli non dovrebbero mai assurgere al rango di dogmi, e nessun sistema andrebbe mai considerato altro che un'ipotesi provvisoria di comodo. La fede nelle formule, e l'azione che risponde a cosiffatte fedi, non può condurci ad una soluzione del nostro problema. "Soltanto attraverso l'intendimento creativo di noi stessi potrà darsi un mondo creativo, un mondo felice, un mondo, nel quale non esistano idee». Un mondo nel quale non esistano idee sarebbe un mondo felice, perché sarebbe privo delle potenti forze condizionanti che costringono gli uomini ad intraprendere azioni incongrue, privo dei dogmi consacrati in nome dei quali si giustificano i crimini peggiori, si razionalizzano elaboratamente le insanie supreme.

Un'educazione che non ci insegni come, ma che cosa pensare, esige una classe dirigente di pastori e di maestri. Ma "l'idea stessa di guidare qualcuno è antisociale e antispirituale". Per chi la eserciti, la guida comporta la soddisfazione della brama di potere; per chi viene guidato, comporta la soddisfazione del desiderio di certezza e di sicurezza. Il guru fornisce una sorta di narcotico. Ma, si potrebbe chiedere, "che cosa fai tu, dunque? non ti comporti come nostro guru?". "Senza dubbio", risponde Krishnamurti, "io non sto agendo come vostro guru, perché, in primo luogo, non vi offro alcuna ricompensa. Non vi sto dicendo che cosa dovreste fare di momento in momento, o di giorno in giorno, ma sto semplicemente indicandovi qualcosa; potete prenderla o no, dipende da voi, non da me. Non vi chiedo nulla, né il vostro culto, né la vostra adulazione, né i vostri insulti, né i vostri dei. Io dico: questo è un fatto: prendere o lasciare. E molti di voi non lo prenderanno, per la ragione ovvia che non vi trovano alcuna remunerazione".

Che cosa, precisamente, offre Krishnamurti? Qual è la cosa che volendo possiamo prendere ma che, con ogni probabilità, preferiremo non prendere? Non è, come abbiamo veduto, un sistema di credenze, un catalogo di dogmi, una serie di nozioni e ideali belli e pronti. Non è guida, né mediazione, né direzione spirituale, e neppure è un esempio. Non è rito, non è chiesa, non è un codice, non è elevazione né forma alcuna di banalità che abbia attinenza con l'ispirazione.

È, forse, autodisciplina? no; perché l'autodisciplina, come dato bruto di fatto, non è il modo in cui potremo risolvere il nostro problema. Per trovare la soluzione, la mente deve aprirsi alla realtà, deve affrontare la realtà data del mondo esterno e del mondo interno senza preconcetti e senza restrizioni. (Servire Dio è libertà perfetta. Per converso, la libertà perfetta è servire Dio), Disciplinandosi, la mente non è sottoposta ad alcun mutamento radicale: è pur sempre l'antico sé, ma "imbrigliato, tenuto sotto controllo".
L'autodisciplina si aggiunge alla lista delle cose che Krishnamurti non ci offre. Può darsi allora che si tratti della preghiera? Una volta di più la risposta è negativa. "La preghiera può portarvi la risposta che ricercate; ma quella risposta può anche venire dall'inconscio, ossia dal magazzino generale, dal deposito di tutte le vostre esigenze. La risposta non sta nella voce immobile di Dio". Considerate, prosegue Krishnamurti, "che cosa accade quando pregate. Ripetendo continuamente certe frasi, e controllando i vostri pensieri, la mente si acquieta, non è vero? O almeno, la mente conscia si acquieta. Vi inginocchiate, come i ,cristiani, o state seduti, come gli indù, e ripetete, ripetete, e mediante la ripetizione la mente si acquieta. In quella quiete vi è il presagio di un qualche cosa. Questo presagio di qualche cosa, per cui avete pregato, può venire dall'inconscio, o può essere la reazione dei vostri ricordi. Ma, senza dubbio, non è la voce della realtà: poiché la voce della realtà deve venire a voi, non la si può invocare, non si può pregare per essa. Non potrete attirarla entro la vostra minuscola gabbia borbottando puja, bhajan e cose di questo genere, offrendole fiori, placandola, sopprimendo la vostra personalità o emulando quella altrui. Una volta appreso il trucchetto di acquietare la mente mediante la ripetizione di parole, e di ricevere consigli in quella quiete, il rischio - salvo che stiate estremamente in guardia circa l'origine di tali consigli - è di essere catturati, e in tal caso la preghiera diviene un surrogato della ricerca della verità. Ottenete così ciò che cercate: ma non è la verità. Se desiderate, e chiedete, riceverete, ma alla fine ne pagherete il prezzo".


Dalla preghiera passiamo allo yoga: e scopriamo che lo yoga è un'altra delle cose che Krishnamurti non ci offre. Poiché lo yoga è concentrazione, e concentrarsi equivale ad escludere. "Concentrandovi su un pensiero che avete prescelto, costruite un muro di resistenza, e cercate di tenerne fuori tutti gli altri". Quanto comunemente viene chiamato meditazione è meramente "la coltivazione della resistenza, della concentrazione esclusiva su un'idea di vostra scelta", Ma che cosa determina la scelta? "Che cosa vi fa dire che questo è buono, vero, nobile, e il resto no? Ovviamente la scelta si fonda sul piacere, sulla ricompensa o su un risultato; ovvero è una pura reazione al proprio condizionamento, alla propria tradizione. Perché mai decidiamo di scegliere? Perché non esaminiamo ogni pensiero? Quando sono molti ad interessarvi, perché sceglierne uno? Perché non esaminare ciascuno di tali interessi? Anziché creare una resistenza, perché non approfondiamo ogni interesse non appena sorge, senza concentrarci puramente su una sola idea, su un unico interesse? Dopo tutto, voi siete costituiti di numerosi interessi, portate molte maschere, consapevolmente o inconsapevolmente. Perché sceglierne una e scartare tutte le altre, per combattere le quali spendete tutte le vostre energie, creando così resistenza, conflitto e frizione? Mentre, se prendete in considerazione ogni pensiero nel momento in cui sorge - tutti i pensieri, e non soltanto alcuni - allora, non vi sarà esclusione. Ma esaminare ogni pensiero è una cosa difficile. Perché, mentre state considerandone uno, un altro se ne infiltra. Tuttavia, se restate consapevoli, senza padroneggiarvi, senza giustificarvi, vedrete che, per il semplice fatto che considerate quel pensiero, nessun altro vi si immischia. Soltanto quando condannate, confrontate, accostate, soltanto allora gli altri pensieri finiscono col penetrare».

"Non giudicate, se non volete essere giudicati". Il precetto evangelico si applica tanto quando operiamo su noi stessi che quando trattiamo con altri. Ove è giudizio, ove è confronto e condanna, mancherà l'apertura ' mentale; non potrà esservi libertà rispetto alla tirannia dei simboli e dei sistemi, non si potrà sfuggire al passato e all'ambiente. L'introspezione che possiede una finalità predeterminata, l'esame di sé all'interno della struttura di un qualsiasi codice tradizionale, di un qualsiasi sistema di postulati consacrati, tutto ciò non ci salverà, non potrà salvarci. Vi è una spontaneità trascendente del vivere, una "Realtà creativa», come la definisce Krishnamurti, che si rivela immanente, basta che la mente di chi percepisce si trovi in uno stato di `passività sveglia', di `consapevolezza senza scelte'. Il giudizio e il confronto ci consegnano irreparabilmente al dualismo. Soltanto una consapevolezza che non scelga può condurci al non-dualismo, alla riconciliazione degli opposti in una comprensione totale e in un amore totale. Ama et fac quod vis. Se si ama, si può fare ciò che si vuole, Ma se si comincia col fare ciò che si vuole, o col fare ciò ché non si vuole, per obbedire a qualche sistema, a qualche nozione, a qualche ideale e divieto tradizionali, non si amerà mai. Il processo di affrancamento deve iniziarsi con la consapevolezza, priva di scelte preconcette, di ciò che si vuole e delle nostre reazioni al sistema di simboli che ci dice che si dovrebbe, o non dovrebbe, volerlo. Mediante questa consapevolezza senza scelte, col suo penetrare graduale degli strati dell'ego e dell'inconscio ad esso associato, verrà l'amore e l'intendimento, ma saranno di un ordine diverso rispetto a quelli cui siamo avvezzi. La consapevolezza senza scelte - in qualsiasi momento ed in ogni circostanza della vita - è l'unica meditazione veramente efficace. Tutte le altre forme di yoga conducono o al pensare cieco che risulta dall'autodisciplina, o ad un qualche tipo di rapimento auto-indotto, ad una qualche forma di falso samàdhi. La liberazione vera è "una libertà intima della Realtà creativa». Questa "non è un dono; va scoperta e sperimentata. Non è qualche cosa da conquistare per ricavarne gloria. $ uno stato dell'essere, come il silenzio, nel quale non vi è divenire, nel quale vi è completezza. Questa creatività non cercherà necessariamente di esprimersi; non si tratta di un talento che esiga un'espressione esteriore. Non occorre che siate un grande artista o che abbiate un pubblico: se cercate queste cose, perderete la Realtà interiore. Non è un dono, e neppure è il risultato del talento; va trovato, questo tesoro imperituro, dove il pensiero si libera dalla libidine, dalla cattiva volontà e dall'ignoranza, dove il pensiero si affranca dalla mondanità e dalla brama personale di esistere. Va sperimentato mediante il retto pensiero e la retta meditazione". L'autocoscienza senza scelte ci condurrà alla Realtà creativa che sottende tutte le nostre finzioni distruttive, alla saggezza tranquilla che c'è sempre, malgrado la conoscenza che è, semplicemente, ignoranza in forma diversa. La conoscenza è una faccenda di simboli e, troppo spesso, è un impaccio alla saggezza, alla scoperta di sé di momento in momento. Una mente che sia giunta alla quiete della saggezza "conoscerà l'essere, conoscerà che cosa sia amare. L'amore non è né personale né impersonale. L'amore è l'amore, non va definito o descritto dalla mente come inclusivo o esclusivo. L'amore è la sua propria eternità; è il reale, il supremo, l'incommensurabile".



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