lunedì 31 dicembre 2012

J. Krishnamurti


J. Krishnamurti

Saggio di Aldous Huxley


L'uomo è un anfibio che vive simultaneamente in due mondi: quello che trova e modella, il mondo della materia, della vita e della coscienza, e il mondo dei simboli. Nel pensare impieghiamo una vasta gamma di sistemi simbolici: linguistici, matematici, figurativi, musicali, rituali. Senza tali sistemi non avremmo né arte, né scienza, né legge, né filosofia, e neppure i rudimenti stessi della civiltà: saremmo, in altri termini, animali.

Pertanto i simboli sono indispensabili. Ma - come dimostra tanto copiosamente la storia della nostra epoca e di qualsiasi altra - i simboli possono pure essere fatali. Si consideri, ad esempio, da un lato il campo della scienza, dall'altro il campo della politica e della religione. Pensando nei termini di una serie di simboli, ed agendo in risposta solo ad essa, siamo pervenuti in qualche misura, peraltro assai piccola, ad intendere e controllare le forze elementari della natura. Pensando nei termini di un'altra serie di simboli, ed agendo in risposta ad essa, impieghiamo tali forze come strumenti per l'assassinio in massa e il suicidio collettivo. Nel primo caso i simboli chiarificatori sono stati ben scelti, analizzati con grande accuratezza e adattati progressivamente ai fatti principali dell'esistenza fisica. Nel secondo caso i simboli, originariamente scelti male, non sono mai stati sottoposti ad un'analisi esauriente, non sono stati mai riformulati in modo da armonizzarsi con i fatti fondamentali dell'esistenza umana. Peggio ancora: questi simboli mistificatori sono stati ovunque trattati con una specie di reverenza del tutto immeritata, come se, in un qualche misterioso modo, fossero piú reali delle realtà cui si riferivano. Nei contesti della religione e della politica, le parole non sono considerate come segni che rappresentino, piuttosto inadeguatamente, cose ed eventi; all'opposto, cose ed eventi sono considerati esplicazioni particolari delle parole.

Fino ad oggi i simboli sono stati impiegati realisticamente soltanto in quei campi che, secondo il nostro convincimento, non sono di importanza suprema. In tutte le situazioni che impegnano i nostri impulsi piú profondi ci siamo invece intestarditi ad usare i simboli non semplicemente in modo non realistico, ma addirittura in modo idolatrico, anzi insano. Ne è derivato che siamo stati capaci di commettere a sangue freddo, e per lunghi periodi di tempo, atti dei quali i bruti sono capaci soltanto per brevi istanti e nell'acme frenetica dell'ira, della libidine o della paura. Per il fatto di usare e adorare simboli, gli uomini possono diventare idealisti; ed essendo idealisti, possono tramutare la brama temporanea, propria degli animali, negli imperialismi grandiosi di un Rhodes o di un j. P. Morgan; l'effimero gusto di tirannia, proprio degli animali, nello stalinismo o nell'Inquisizione di Spagna; l'attaccamento saltuario al proprio territorio, proprio degli animali, nelle frenesie premeditate del nazionalismo. 

Fortunatamente possono pure trasformare la temporanea mansuetudine degli animali nella carità instancabile di una Elizabeth Fry o di un Vincenzo de' Paoli; l'effimera devozione degli animali al proprio compagno ed ai piccoli nella collaborazione ragionata e tenace che, fino ad oggi, si è dimostrata abbastanza solida da salvare il mondo dalle conseguenze dell'altra e disastrosa sorta di idealismo. Ma ciò potrà continuare a salvare il mondo? Alla domanda non si può dare risposta. Tutto quel che si può dire è che, con la bomba atomica nelle mani degli idealisti del nazionalismo, le probabilità in favore degli idealisti della collaborazione e della carità hanno subito una brusca riduzione.

Anche il miglior libro di cucina non sostituirà mai un pranzo, sia pure il peggiore: la cosa sembra abbastanza ovvia. Eppure, in tutte le età, i filosofi piú profondi, i teologi piú dotti ed acuti sono sempre caduti nell'errore di identificare coi fatti le proprie costruzioni puramente verbali, o in quello, ancor piú enorme, di immaginare che i simboli siano, in qualche modo, piú reali di ciò che rappresentano. Questo culto della parola non è stato scevro di proteste. "Lo spirito solo", dice San Paolo, "dà la vita; la lettera uccide". "E perché", domanda Eckhart, "perché cianciate di Dio? Qualsiasi cosa diciate di Dio è falsa". All'altro capo del mondo, l'autore di uno dei Mahayana Sútra affermava che "mai la verità è stata predicata dal Buddha, che vedeva come dobbiate rendervi conto di essa entro voi stessi". Tali affermazioni vennero considerate profondamente sovversive, e la gente benpensante le ha ignorate. La strana sopravvalutazione idolatrica delle parole e degli emblemi proseguì indisturbata. Le religioni sono declinate; ma l'antica abitudine di formulare credi e di imporre la fede in certi dogmi è persistita, persino tra gli atei.
Negli ultimi anni, logici e semantici hanno effettuato un'analisi assai approfondita dei simboli nei cui termini gli uomini compiono l'operazione del pensare. La linguistica è divenuta una scienza, ed è possibile persino dedicarsi allo studio di un campo cui il defunto Benjamin Whorf ha conferito il nome di meta-linguistica. Tutto ciò è ottimo; ma non è abbastanza. La logica e la semantica, la linguistica e la metalinguistica, sono discipline puramente intellettuali. Analizzano i diversi modi, corretti o meno, significativi o meno, secondo i quali le parole possono venir poste in relazione con le cose, i processi e gli eventi. Ma non offrono alcuna guida nei riguardi del problema, assai piú fondamentale, del rapporto dell'uomo nella sua totalità psicofisica, da un lato, con i suoi due mondi, quello dei fatti e quello dei simboli, dall'altro.

In qualsiasi luogo e in qualsiasi epoca storica questo problema ha ripetutamente trovato soluzione da parte di singoli uomini e donne. Sia pure parlando o scrivendo, queste persone non creavano sistemi: perché sapevano che qualsiasi sistema costituisce una tentazione continua a prendere i simboli troppo sul serio, a concedere maggiore attenzione alle parole che alle realtà che si suppone le parole rappresentino. Mai il loro fine è stato di offrire panacee e spiegazioni belle e fatte; ma di indurci a diagnosticare e curare le nostre proprie malattie, a far sì che si giunga a quel punto, ove il problema dell'uomo e la sua soluzione si affacciano direttamente all'esperienza.
In questo volume, che raccoglie una scelta degli scritti e delle conversazioni registrate di Krishnamurti, il lettore troverà un'impostazione chiara e moderna del problema fondamentale dell'uomo, e insieme un invito a risolverlo nell'unico modo in cui esso è solubile: da sé, e per se stessi. Le soluzioni collettive cui si appunta tanto disperatamente la fede di tanti, non sono mai adeguate. "Per comprendere la miseria e la confusione che esistono dentro di noi, e dunque nel mondo, anzitutto dovremo trovare chiarezza dentro di noi; e a quella chiarezza si giunge pensando correttamente. Tale chiarezza non va organizzata, poiché non la si può scambiare con altri. Il pensiero organizzato, di gruppo, è puramente ripetitivo. La chiarezza non è il risultato di un'asserzione verbale, ma di un'autocoscienza acuta e di un retto pensare. Il pensiero retto non è il derivato, o la mera coltivazione, dell'intelletto, e neppure è conformismo rispetto ad uno schema, per quanto nobile e degno sia lo schema. Il pensiero retto si accompagna all'autocoscienza. Senza intendere noi stessi, non avremo alcuna base per pensare; senza la conoscenza di sé, quel che si pensa non è vero".

Questo tema fondamentale viene sviluppato da Krishnamurti passo per passo. "La speranza sta negli uomini, non nella società, non in alcun sistema, non nei sistemi religiosi organizzati, ma in voi ed in me". Le religioni organizzate, con i loro riti, non offrono che una soluzione falsa al problema fondamentale. "Quando citate la Bhagavad Gita, o la Bibbia, o un qualche testo sacro cinese, non vi è dubbio che state semplicemente ripetendo, non vi pare? E quanto viene ripetuto non è la verità. È menzogna, perché la verità non la si può ripetere». Si può diffondere, proporre, recitare una menzogna, ma non la verità; e quando si ripete la verità, essa cessa di esserlo, e pertanto i libri sacri non hanno valore. È attraverso l'autocoscienza, non attraverso la fede nei simboli di qualcun altro, che si giunge alla realtà eterna, nella quale l'essere dell'uomo è fondato. La fede nell'adeguatezza totale e nel valore supremo di un qualsiasi sistema precostituito di simboli non conduce alla liberazione, ma alla storia, ad un'iterazione sempre delle medesime, antiche sciagure. "Inevitabilmente la fede separa. Se avete una fede, o quando ricercate la sicurezza nella vostra fede particolare, vi separate da coloro che ricercano la sicurezza in qualche altra forma di fede. Tutte le fedi organizzate si fondano sulla separazione, sebbene, magari, predichino la fratellanza". Chi abbia risolto con successo il problema delle sue relazioni con i due mondi, dei dati di fatto e dei simboli, è un uomo che non ha fedi. Per quanto riguarda i problemi della vita pratica egli mantiene una serie di ipotesi di lavoro, che servono ai suoi scopi, ma che non vengono prese più seriamente di qualsiasi altra specie di utensile o strumento. Per quanto riguarda gli esseri suoi simili e la realtà nella quale si fondano, egli ha le esperienze dirette dell'amore e della comprensione. È appunto per proteggersi dalle fedi che Krishnamurti "non ha letto nessuna forma di letteratura sacra, né la Bhagavad Gità né le Upanishad". Noialtri neppure leggiamo letteratura sacra: leggiamo i nostri giornali, riviste, romanzi gialli favoriti. Ciò significa che ci accostiamo alla crisi del nostro tempo non con amore e penetrazione, ma con "formule, sistemi» - ben poveri sistemi e formule, quanto a questo. Ma "gli uomini di buona volontà non dovrebbero avere alcuna formula"; poiché le formule conducono inevitabilmente soltanto ad un "pensare cieco". La predilezione per le formule è pressoché universale. Il che è inevitabile; poiché "il nostro sistema educativo si fonda su che cosa pensare, non su come pensare", Siamo educati come membri credenti e praticanti di una qualche organizzazione - quella comunista, o quella cristiana, musulmana, indù, buddista, freudiana. Di conseguenza, "voi reagite ad una sfida che è sempre nuova secondo uno schema antico; e pertanto la vostra reazione non ha la validità, la novità, la freschezza corrispondenti. Se reagite come cattolici o come comunisti, state reagendo - non è vero? - secondo un pensiero schematizzato. Perciò la vostra reazione non ha significato. E l'indù, il musulmano, il buddista, il cristiano, noti ha forse creato questo problema? Come la religione di oggi è il culto dello Stato, così la religione antica era il culto di un'idea". Se reagite ad una sfida secondo il condizionamento antico, la reazione non vi porrà in grado di comprendere la sfida nuova.

Perciò quel "che si deve fare, per raccogliere la nuova sfida, è spogliarsi interamente, denudarsi completamente del nostro background e raccogliere la sfida daccapo".

In altri termini, i simboli non dovrebbero mai assurgere al rango di dogmi, e nessun sistema andrebbe mai considerato altro che un'ipotesi provvisoria di comodo. La fede nelle formule, e l'azione che risponde a cosiffatte fedi, non può condurci ad una soluzione del nostro problema. "Soltanto attraverso l'intendimento creativo di noi stessi potrà darsi un mondo creativo, un mondo felice, un mondo, nel quale non esistano idee». Un mondo nel quale non esistano idee sarebbe un mondo felice, perché sarebbe privo delle potenti forze condizionanti che costringono gli uomini ad intraprendere azioni incongrue, privo dei dogmi consacrati in nome dei quali si giustificano i crimini peggiori, si razionalizzano elaboratamente le insanie supreme.

Un'educazione che non ci insegni come, ma che cosa pensare, esige una classe dirigente di pastori e di maestri. Ma "l'idea stessa di guidare qualcuno è antisociale e antispirituale". Per chi la eserciti, la guida comporta la soddisfazione della brama di potere; per chi viene guidato, comporta la soddisfazione del desiderio di certezza e di sicurezza. Il guru fornisce una sorta di narcotico. Ma, si potrebbe chiedere, "che cosa fai tu, dunque? non ti comporti come nostro guru?". "Senza dubbio", risponde Krishnamurti, "io non sto agendo come vostro guru, perché, in primo luogo, non vi offro alcuna ricompensa. Non vi sto dicendo che cosa dovreste fare di momento in momento, o di giorno in giorno, ma sto semplicemente indicandovi qualcosa; potete prenderla o no, dipende da voi, non da me. Non vi chiedo nulla, né il vostro culto, né la vostra adulazione, né i vostri insulti, né i vostri dei. Io dico: questo è un fatto: prendere o lasciare. E molti di voi non lo prenderanno, per la ragione ovvia che non vi trovano alcuna remunerazione".

Che cosa, precisamente, offre Krishnamurti? Qual è la cosa che volendo possiamo prendere ma che, con ogni probabilità, preferiremo non prendere? Non è, come abbiamo veduto, un sistema di credenze, un catalogo di dogmi, una serie di nozioni e ideali belli e pronti. Non è guida, né mediazione, né direzione spirituale, e neppure è un esempio. Non è rito, non è chiesa, non è un codice, non è elevazione né forma alcuna di banalità che abbia attinenza con l'ispirazione.

È, forse, autodisciplina? no; perché l'autodisciplina, come dato bruto di fatto, non è il modo in cui potremo risolvere il nostro problema. Per trovare la soluzione, la mente deve aprirsi alla realtà, deve affrontare la realtà data del mondo esterno e del mondo interno senza preconcetti e senza restrizioni. (Servire Dio è libertà perfetta. Per converso, la libertà perfetta è servire Dio), Disciplinandosi, la mente non è sottoposta ad alcun mutamento radicale: è pur sempre l'antico sé, ma "imbrigliato, tenuto sotto controllo".
L'autodisciplina si aggiunge alla lista delle cose che Krishnamurti non ci offre. Può darsi allora che si tratti della preghiera? Una volta di più la risposta è negativa. "La preghiera può portarvi la risposta che ricercate; ma quella risposta può anche venire dall'inconscio, ossia dal magazzino generale, dal deposito di tutte le vostre esigenze. La risposta non sta nella voce immobile di Dio". Considerate, prosegue Krishnamurti, "che cosa accade quando pregate. Ripetendo continuamente certe frasi, e controllando i vostri pensieri, la mente si acquieta, non è vero? O almeno, la mente conscia si acquieta. Vi inginocchiate, come i ,cristiani, o state seduti, come gli indù, e ripetete, ripetete, e mediante la ripetizione la mente si acquieta. In quella quiete vi è il presagio di un qualche cosa. Questo presagio di qualche cosa, per cui avete pregato, può venire dall'inconscio, o può essere la reazione dei vostri ricordi. Ma, senza dubbio, non è la voce della realtà: poiché la voce della realtà deve venire a voi, non la si può invocare, non si può pregare per essa. Non potrete attirarla entro la vostra minuscola gabbia borbottando puja, bhajan e cose di questo genere, offrendole fiori, placandola, sopprimendo la vostra personalità o emulando quella altrui. Una volta appreso il trucchetto di acquietare la mente mediante la ripetizione di parole, e di ricevere consigli in quella quiete, il rischio - salvo che stiate estremamente in guardia circa l'origine di tali consigli - è di essere catturati, e in tal caso la preghiera diviene un surrogato della ricerca della verità. Ottenete così ciò che cercate: ma non è la verità. Se desiderate, e chiedete, riceverete, ma alla fine ne pagherete il prezzo".


Dalla preghiera passiamo allo yoga: e scopriamo che lo yoga è un'altra delle cose che Krishnamurti non ci offre. Poiché lo yoga è concentrazione, e concentrarsi equivale ad escludere. "Concentrandovi su un pensiero che avete prescelto, costruite un muro di resistenza, e cercate di tenerne fuori tutti gli altri". Quanto comunemente viene chiamato meditazione è meramente "la coltivazione della resistenza, della concentrazione esclusiva su un'idea di vostra scelta", Ma che cosa determina la scelta? "Che cosa vi fa dire che questo è buono, vero, nobile, e il resto no? Ovviamente la scelta si fonda sul piacere, sulla ricompensa o su un risultato; ovvero è una pura reazione al proprio condizionamento, alla propria tradizione. Perché mai decidiamo di scegliere? Perché non esaminiamo ogni pensiero? Quando sono molti ad interessarvi, perché sceglierne uno? Perché non esaminare ciascuno di tali interessi? Anziché creare una resistenza, perché non approfondiamo ogni interesse non appena sorge, senza concentrarci puramente su una sola idea, su un unico interesse? Dopo tutto, voi siete costituiti di numerosi interessi, portate molte maschere, consapevolmente o inconsapevolmente. Perché sceglierne una e scartare tutte le altre, per combattere le quali spendete tutte le vostre energie, creando così resistenza, conflitto e frizione? Mentre, se prendete in considerazione ogni pensiero nel momento in cui sorge - tutti i pensieri, e non soltanto alcuni - allora, non vi sarà esclusione. Ma esaminare ogni pensiero è una cosa difficile. Perché, mentre state considerandone uno, un altro se ne infiltra. Tuttavia, se restate consapevoli, senza padroneggiarvi, senza giustificarvi, vedrete che, per il semplice fatto che considerate quel pensiero, nessun altro vi si immischia. Soltanto quando condannate, confrontate, accostate, soltanto allora gli altri pensieri finiscono col penetrare».

"Non giudicate, se non volete essere giudicati". Il precetto evangelico si applica tanto quando operiamo su noi stessi che quando trattiamo con altri. Ove è giudizio, ove è confronto e condanna, mancherà l'apertura ' mentale; non potrà esservi libertà rispetto alla tirannia dei simboli e dei sistemi, non si potrà sfuggire al passato e all'ambiente. L'introspezione che possiede una finalità predeterminata, l'esame di sé all'interno della struttura di un qualsiasi codice tradizionale, di un qualsiasi sistema di postulati consacrati, tutto ciò non ci salverà, non potrà salvarci. Vi è una spontaneità trascendente del vivere, una "Realtà creativa», come la definisce Krishnamurti, che si rivela immanente, basta che la mente di chi percepisce si trovi in uno stato di `passività sveglia', di `consapevolezza senza scelte'. Il giudizio e il confronto ci consegnano irreparabilmente al dualismo. Soltanto una consapevolezza che non scelga può condurci al non-dualismo, alla riconciliazione degli opposti in una comprensione totale e in un amore totale. Ama et fac quod vis. Se si ama, si può fare ciò che si vuole, Ma se si comincia col fare ciò che si vuole, o col fare ciò ché non si vuole, per obbedire a qualche sistema, a qualche nozione, a qualche ideale e divieto tradizionali, non si amerà mai. Il processo di affrancamento deve iniziarsi con la consapevolezza, priva di scelte preconcette, di ciò che si vuole e delle nostre reazioni al sistema di simboli che ci dice che si dovrebbe, o non dovrebbe, volerlo. Mediante questa consapevolezza senza scelte, col suo penetrare graduale degli strati dell'ego e dell'inconscio ad esso associato, verrà l'amore e l'intendimento, ma saranno di un ordine diverso rispetto a quelli cui siamo avvezzi. La consapevolezza senza scelte - in qualsiasi momento ed in ogni circostanza della vita - è l'unica meditazione veramente efficace. Tutte le altre forme di yoga conducono o al pensare cieco che risulta dall'autodisciplina, o ad un qualche tipo di rapimento auto-indotto, ad una qualche forma di falso samàdhi. La liberazione vera è "una libertà intima della Realtà creativa». Questa "non è un dono; va scoperta e sperimentata. Non è qualche cosa da conquistare per ricavarne gloria. $ uno stato dell'essere, come il silenzio, nel quale non vi è divenire, nel quale vi è completezza. Questa creatività non cercherà necessariamente di esprimersi; non si tratta di un talento che esiga un'espressione esteriore. Non occorre che siate un grande artista o che abbiate un pubblico: se cercate queste cose, perderete la Realtà interiore. Non è un dono, e neppure è il risultato del talento; va trovato, questo tesoro imperituro, dove il pensiero si libera dalla libidine, dalla cattiva volontà e dall'ignoranza, dove il pensiero si affranca dalla mondanità e dalla brama personale di esistere. Va sperimentato mediante il retto pensiero e la retta meditazione". L'autocoscienza senza scelte ci condurrà alla Realtà creativa che sottende tutte le nostre finzioni distruttive, alla saggezza tranquilla che c'è sempre, malgrado la conoscenza che è, semplicemente, ignoranza in forma diversa. La conoscenza è una faccenda di simboli e, troppo spesso, è un impaccio alla saggezza, alla scoperta di sé di momento in momento. Una mente che sia giunta alla quiete della saggezza "conoscerà l'essere, conoscerà che cosa sia amare. L'amore non è né personale né impersonale. L'amore è l'amore, non va definito o descritto dalla mente come inclusivo o esclusivo. L'amore è la sua propria eternità; è il reale, il supremo, l'incommensurabile".



mercoledì 12 dicembre 2012

L'apologia di Socrate



L'apologia di Socrate

Platone

  
Quello che è avvenuto a voi, Ateniesi, in udire i miei accusatori, non so; ma io, per cagion loro, poco meno mi dimenticai di me stesso, cosí parlarono persuasivamente: benché, se ho a dire, essi non han detto nulla di vero. Ma delle molte loro menzogne ne ammirai massimamente una, questa: dissero che a voi bene conveniva guardarvi non foste tratti da me in inganno, perciò che sono terribile dicitore. Imperocché a non vergognarsi che tosto li avrei smentiti, mostrando in fatto non essere niente terribile dicitore, questa mi parve la lor maggiore impudenza: salvo che non chiamino terribile dicitore uno che dice il vero; ché, se intendono cosí, ben consentirei che sono oratore io: ma non a lor modo. Essi dunque han detto poco o nulla di vero, come io dico; ma da me voi udirete tutta la verità. Non, per Giove, orazioni ornate, come le loro, di frasi e parole belle; ma sí udirete cose dette senza niuno studio, con quelle parole che vengono, ma giuste, io credo; e niun di voi si aspetti altro da me. Perché non istarebbe bene, che io, o cittadini, venissi innanzi a voi come un giovinetto che modelli sue orazioni; io, a questa età. Anzi, o Ateniesi, di questo prego voi, e voi supplico, che se udite me con quelle parole difender me stesso con le quali son solito parlare e in mercato ai banchi, dove mi hanno udito molti di voi, e altrove, non vi maravigliate né facciate rumore. La cosa va cosí: io, la prima volta ora, vengo su in tribunale e ho settant'anni; onde alla dicitura di qui sono proprio forestiero. E dacché, se fossi veramente forestiero, voi mi perdonereste se io vi parlassi in quella voce e quel modo ne' quali fossi allevato, prego voi ora (e mi par che a ragione) che non badiate alla maniera di dire (forse potrebb'ella esser peggio, forse meglio), e guardiate solo e consideriate se dico cose giuste, o no. Imperocché questa è la virtú del giudice; quella dell'oratore poi, è dire il vero.

II.

E ora, o Ateniesi, è giusto che prima io mi difenda contro le prime false accuse e contro i primi accusatori; poi contro quelle e quelli venuti dopo. Imperocché accusatori miei presso voi ce n'è stati molti, e da un pezzo, sono già molti anni, non dicendo nulla di vero: i quali piú mi dànno paura che non Anito e i suoi seguaci, contuttoché terribili, anche loro. Ma quelli sono piú terribili, o cittadini; i quali, pigliando i piú di voi ancor fanciulli, di loro accuse contro me in nulla vere vi ebbero persuasi: che ci è un certo Socrate, uomo sapiente, speculatore delle cose del cielo e cercatore di tutte le cose sotto terra, e che le piú deboli ragioni fa piú forti. E gli spargitori, o Ateniesi, di questa fama, essi sono i miei terribili accusatori; imperocché pensano quelli che li odono, i cercatori di cotali cose non creder né anche negl'Iddii. E poi questi accusatori sono molti e m'han già accusato da molto tempo, parlando in quella età a voi nella quale molto credevate per essere fanciulli, alcuni giovinetti; e mi hanno accusato, me assente, niuno difendendomi. E la piú strana cosa è che non si possa conoscere e dire loro nomi, salvoché qualche comediografo; ma, tutti quelli che voi ebbero persuasi per invidia o calunnia, o perché persuasi e persuadenti alla loro volta, verso questi non so che fare io: né si può qua menare nessun di loro né argomentar contro; ed è proprio necessità che io mi difenda come se combattessi con ombre, e che, niuno rispondendo, ribatta. Dunque, consentite anche voi, i miei accusatori sono di due specie, i novelli, e gli antichi che dico io: e consentite che io mi ho a difendere prima contro quelli; imperocché voi avete udito quelli accusarmi prima, e piú molto, che non questi venuti dopo. E sia. Ci si ha a difendere, dunque, e ci si ha a provare di trar via fuori dai vostri animi la calunnia che ivi cova da lungo tempo, e trarnela in tempo cosí breve. Oh cosí fosse, se cosí è il meglio per voi e per me; se avessi pure qualche vantaggio, difendendomi; ma la difficoltà la vedo, e non mi si nasconde quale ella è. Ma vada come a Dio piace; si ha a ubbidire alla legge e ci si ha a difendere.

III.

Dunque ripigliamo da principio: che è l'accusa, dalla quale m'è nata la calunnia, e alla quale prestando fede scrisse la querela sua Meleto? e che mai dicendo mi calunniarono i calunniatori? Via, essendo accusatori essi, la lor querela giurata conviene che la legga. Eccola: "Socrate fa rea opera, e temeraria, cercando le cose sotto terra e quelle su in cielo, e le piú deboli ragioni facendo piú forti, e questo insegnando agli altri". - Su per giú cosí ella dice, come avete veduto voi stessi, là, nella comedia di Aristofane: un Socrate sé girante per aria, e di camminare per aria gloriantesi, e predicante altre molte ciancie; delle quali non so nulla io né punto né poco: e non dico cosí come dispregiando questa cotal scienza, se mai alcuno l'avesse: oh non ci vorrebbe altro che da parte di Meleto mi tirassi addosso anche cotesta accusa. Ma, o Ateniesi, io non ne so nulla: e invoco a testimoni i piú di voi, e voglio che vi contiate l'un l'altro quanti mi avete mai udito ragionare, e ce n'è molti; vi contiate l'un l'altro se mi ha udito mai alcuno o poco o molto ragionare di cose simili: e conoscerete che il medesimo valore hanno le altre accuse, le quali contro me dicono.
IV.

Sí non ci è nulla di vero: e se avete mai udito che io mi provo a educare uomini e fo danari, né anche questo è vero. Certo mi parrebbe bello se ci fosse alcuno, atto a educare uomini, come Gorgia il Leontino, o Prodico di Ceo, o Ippia di Elide: a ciascun dei quali, andando di città in città, vien fatto, o Ateniesi, di persuadere i giovani, che pur potrebbero conversare con qualunque volessero dei lor cittadini, e senza paga; persuaderli, lasciata la conversazione di quelli, a conversare con essi, dando danari e col cuore ringraziando. E ci è altro sapiente uomo, che so essere venuto qua fra noi, un di Paro. So questo perché e' m'avvenne d'accostare un che con i sofisti ha speso danaro piú che tutti gli altri, Callia il figliuolo d'Ipponico. Lui che ha due figliuoli, interrogai io: - O Callia, se i tuoi due figliuoli fossero puledri o vitelli, non avremmo a prendere noi a paga un sovrastante, il quale, della virtú a loro convenevole, far li dovesse buoni e belli e sarebbe un cavallerizzo o un che s'intende di campi? Ma, dacché sono uomini, chi hai in mente di prender loro come sovrastante? Chi è intendente della virtú, della umana e civile? Credo che tu ci abbi pensato, dacché hai de' figliuoli. C'è alcuno, - dissi io, - o no? - Oh sí, - rispose. - Chi, - dimandai io, - e di dove è, e per insegnare quanto vuole? - Rispose: - Eveno, o Socrate; di Paro; cinque mine. - Beato Eveno, - diss'io, - s'egli ha questa virtú e sa insegnare cosí bene -. Mi glorierei anch'io ed inorgoglirei, se sapessi; ma io non so, Ateniesi.

V.

Ripiglierà alcuno di voi: - Ma, o Socrate, che faccenda è la tua? D'onde ti sono nate queste calunnie? Se non ti fossi preso brighe che gli altri non si prendono, se fatto non avessi come i piú non fanno, tu non saresti venuto in cosí mala voce. Di' a noi dunque: che è? affinché noi non giudichiamo di te a caso -. Chi dice cosí, dice dirittamente, mi pare; e io mi proverò di chiarire a voi che è mai quel che ha generato contro me la mala fama e calunnia. State a udire: forse parrà ad alcuni di voi che io scherzi; ma, sappiate bene, io vi dirò tutta la verità. Io, Ateniesi, non per altro che per una certa sapienza mi sono procurato cotesta mala fama. Quale sapienza? quella umana, forse: perché può esser bene che di questa sapienza sia io sapiente, e quelli che diceva dianzi sarebbero sapienti di certa sapienza piú che umana: o non so che dico, perocché di questa io non ho cognizione, e chi afferma che sí, mentisce e mi vuole calunniare. E non ischiamazzate, o Ateniesi, se vi par che dica una strana cosa, ché non son mie le parole che io dico, ma sí di tale che degno è che voi gli abbiate fede; imperocché di questa mia, se sapienza ella è, e quale, vi addurrò a testimonio l'Iddio che è in Delfo. Cherofonte, voi lo conoscete: egli fu amico mio da giovine, e amico fu al vostro popolo, e fuggí in questa ultima fuga con voi e tornò con voi; e conoscete Cherofonte com'egli era, e l'impeto suo dove ch'ei si mettesse. Ora andato una volta a Delfo, ecco di che egli osò interrogare l'oracolo; non ischiamazzate, dico, Ateniesi: lo interrogò se alcuno fosse piú sapiente di me. Rispose la Pizia: - Niuno essere piú sapiente. - E di ciò sarà testimonio a voi suo fratello che è qui; ch'egli è morto.

VI.

Guardate perché dico questo: perché voglio che conosciate voi d'onde mi sia nata la calunnia. Dunque, udendo io quelle parole, pensai: "Che mai dice l'Iddio? nelle parole sue che mai nasconde? perché io non ho coscienza, né punto né poco, di essere sapiente. Che mai dice, affermando che io sono sapientissimo? certo non mentisce, ché non gli è lecito". E molto tempo stetti in dubitazione che mai volesse Egli dire. Poi e con fatica, mi fui messo cosí a cercare. Andai a un di quei che paiono sapienti, e fra me dissi: "Or, se mai, smentirò il vaticinio e mostrerò all'oracolo che piú sapiente di me è colui: tu dicesti me". E riguardandolo bene (non c'è bisogno che dica il nome, era un de' politici) ecco che mi avvenne. Messomi a conversare con lui, mi parve che quest'uomo ben paresse sapiente ad altri molti uomini, e massimamente a sé medesimo, ma che non fosse. E mi provai di mostrarglielo: - Tu sí credi essere sapiente, ma non sei -. E tosto a lui, e a molti che ivi erano presenti, venni in odio. Andatomene via, ragionai fra me, e cosí dissi: "Son piú sapiente io di questo uomo; imperocché, a vedere, niuno di noi due sa nulla di bello e di buono, ma costui crede sapere, e non sa; io non so, ma non credo né anche sapere. E pare che per cotesta piccolezza sia piú sapiente io, perciò che non credo sapere quello che non so". E andai a un altro, di quelli che mostravano essere piú sapienti di lui; e me ne parve il medesimo: e cosí venni in odio e a quello e a molti altri.

VII.

E seguitai ad andare: con dolore e tremore, sentendo che veniva in odio; nondimeno parevami necessario far grandissima estimazione della parola dell'Iddio, e andare a tutti coloro che mostravano di sapere qualche cosa, per vedere che dicesse mai l'oracolo. E per il Cane, o giudici (a voi si ha a dire il vero), ei m'avvenne che, cercando secondo la mente dell'Iddio, quelli massimamente riputati mi paressero quasi essere piú da poco, e quelli, a vedere piú da poco, essere piú savii. E la peregrinazione mia conviene che io ve la conti, la quale non fu senza fatiche, acciocché la sentenza dell'oracolo chiaro mi si mostrasse. Perché dopo ai politici andai ai poeti, a quelli di tragedia e a quelli di ditirambi e agli altri, per cogliere in sul fatto me quale piú ignorante di loro. E pigliando in mano i loro poemi, quelli che mi parean piú lavorati, anche per apprendere qualche cosa dai poeti, li interrogai che mai dire volessero. Bene ho vergogna, o giudici, di palesarvi il vero; e pur vi si ha a palesare. Ecco, se ho a dire, di quelli argomenti dei quali aveano cantato, quasi tutti gli astanti ne ragionavan meglio di loro. In breve questo ebbi conosciuto, che i poeti non per sapienza poetavano checché poetassero, ma per certa natura e da Dio occupati, come i divinatori e i vaticinatori; i quali dicono pure molte e belle cose, e non sanno nulla di ciò che dicono. E vidi che tale passione tocca i poeti: e insieme mi fui accorto che essi, perciò che poeti, si reputavano ancora nelle altre cose sapientissimi uomini, senza che fossero: e ne andai via pensando che, per la ragion medesima, al paragone di quelli non altrimenti che al paragone dei politici, piú valeva io.

VIII.

In ultimo andai agli artefici, perché mi sapeva da me non essere io intendente di nulla; e quelli sapeva di avere a trovare intendenti di molte e belle cose. E non mi fui ingannato, perché veramente essi intendevano cose che non intendeva io, e da questo lato erano piú sapienti di me. Ma, o Ateniesi, i buoni artefici mi parve che il medesimo peccato avessero che i poeti, dacché ciascuno, per lo adoperare bene sua arte, si credeva sapientissimo anche nelle altre maggiori cose; e questa stoltizia oscurava quella sapienza. Onde per parte dell'oracolo interrogai me medesimo se io volessi essere cosí come sono, né per nulla sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o avere l'una e l'altra cosa, che hanno quelli. Risposi a me e all'oracolo, che mi giovava essere come sono.
IX.

Or da questi esami mi son nate molte inimicizie, o Ateniesi, e molto aspre e fierissime, dalle quali sono nate molte calunnie, fra l'altre questa: ch'ei mi chiamano sapiente. Imperocché ogni volta che argomento contro gli altri, mostrando che non sono sapienti, quelli che stanno lí credono che sapiente sia io. No, cittadini, quel che pare è questo: sapiente davvero essere Iddio, e volere Egli dire per quell'oracolo che la umana sapienza vale poco o nulla: ed è chiaro che non intende Socrate, e che usa del mio nome a fine di porre me a esempio, come se dicesse: - Colui tra voi, o uomini, è sapientissimo, il quale come Socrate conosciuto ha ch'ei non vale nulla in sapienza -. Onde anche ora vo guardando intorno, e cerco tra i cittadini e forestieri chi io creda essere sapiente; e, secondo l'Iddio, lo esamino; e se poi non mi pare tale, aiutando io l'Iddio, gli mostro che non è sapiente. E per questa occupazione non ho tempo di far cosa niuna degna che si dica, né per la città né per la casa, e sono in povertà grande, per servigio dell'Iddio.
X.

Oltre a ciò, i giovani che s'accompagnano meco (e vengon da sé), figliuoli dei piú ricchi, che hanno gran tempo, udendo esaminar gli uomini, godono, e molte volte fra loro provano d'imitare me, e poi si mettono a esaminare gli altri. E sí che ne trovano in abbondanza, penso io, uomini che si credon sapere qualche cosa, sapendo poco o nulla. E ne viene che gli esaminati da loro se la pigliano con me; con loro, no: e dicono che ci è un certo Socrate, scelleratissimo uomo, che guasta i giovani. E se alcuno dimanda: - Per guastarli che fa? e che insegna? - non han da risponder nulla, ché non sanno; ma, per non parere impacciati, dicono quel che si è soliti a dire contro tutti i filosofi: che insegna le cose del cielo e le cose di sotto terra, e a non credere negl'Iddii, e a fare diritto il torto. Perocché la verità credo non la vorrebbero dire, che si sono palesati persone che presumono di sapere, non sapendo nulla. E siccome ambiziosi e furiosi, e molti, e concordemente e persuasivamente e da un pezzo diffamanti, sí di loro gravi calunnie vi ebbero riempiuti gli orecchi. Tra costoro Meleto mi si è levato contro, e Anito e Licone; Meleto in collera per ragion dei poeti; Anito, per gli artefici e i politici; e Licone, per gli oratori. Onde, come diceva dal principio, mi maraviglierei se questa calunnia, fattasi cosí molta, da voi potessi io dissipare in sí poco tempo. Ma la verità è questa, e ve la ho detta tutta, non nascondendo né scemando nulla; sebbene sono quasi certo che perciò mi odiano. Il che è prova ch'io dico vero, e ch'ella è una calunnia, e che la cagione della calunnia è questa. E cercate ora o poi, voi troverete che è cosí.
XI.

E questa difesa, quanto alle colpe delle quali mi hanno accusato i primi miei accusatori, basta. Da Meleto ora mi proverò di difendermi; il buono, l'amante della città, come dice; e dagli altri venuti poi. E dacché questi accusatori son diversi da quelli, la loro giurata querela ripigliamola. Su per giú dice: "Socrate è reo verso ai giovani, guastandoli; e verso agl'Iddii, in quelli non credendo ne' quali la città crede, ma sí in strane cose demoniache, e nuove". Tale è l'accusa: esaminiamola capo per capo. Dice che io sono reo verso i giovani, perché li guasto; e io dico che reo è Meleto, perché scherza pensatamente, trae in tribunale le persone leggermente, e dà a vedere di curarsi molto di cose delle quali nulla non si curò mai. Ch'ella è cosí, mi proverò di mostrarvelo.

XII.

Qua a me, Meleto: di', non ti sta assai a cuore che divengano buoni, quanto si può, i giovani? - A me, sí. - Via, di' a costoro chi li fa migliori. Lo déi sapere, se ti sta a cuore, dacché trovato hai, come tu di', chi li guasta, e me trai al cospetto di costoro, e me accusi. Via, chi li migliora? mostralo: chi è?... Meleto, tu taci, e non sai che dire. E non ti pare brutta cosa? e non ti par sufficiente prova di quel che dico io, che dei giovani non te ne sei curato niente? Ma di', o buono uomo, chi li migliora? - Le leggi. - Ma non dimando questo io, o ottimo uomo, ma sí chi prima conobbe ancora questa medesima cosa, le leggi. - Costoro, o Socrate; i giudici. - Come di', o Meleto? costoro sono atti a educare i giovani, e li migliorano? - Sí certo. - Tutti? o alcuni di loro sí, altri no? - Tutti. - Che buone novelle, per Giunone! oh la gran gente che giova! E questi qua, gli uditori, li migliorano? o no? - Ancora questi. - Che? e i consiglieri? - Ancora i consiglieri. - Ma, o Meleto, i giovani li guastano forse quelli dell'assemblea? o li migliorano ancora quelli? - Ancora quelli. - Tutti gli Ateniesi dunque, come pare, li fan belli e buoni, eccetto me; solo io guasto: cosí di' tu?... - Cosí, cosí dico io. - Oh la grande sventura che mi dici; e rispondi: ti pare il medesimo anche dei cavalli, tutti li migliorano e solo uno li guasta? o, al contrario, li può migliorare solo uno, o pochissimi, i cavallerizzi; e i molti, se hanno a far con cavalli e li adoperano, li guastano? Non è cosí, o Meleto, e dei cavalli e di tutti gli animali? Bene è cosí, o che tu e Anito diciate sí, o no; ché sarebbe gran beatitudine quella dei giovani, se fosse vero che uno solo li guasta, e gli altri li migliorano. Ma, o Meleto, ben mostri non aver pensato mai ai giovani, e prova ne dài chiara; e nondimeno, sotto specie d'amore a questi giovani dei quali non ti sei curato niente, tu qua mi meni.

 XIII.

E per Giove ci di', o Meleto, se è meglio abitare fra buoni, o fra malvagi cittadini... Caro! rispondi; non è niente difficil cosa quella che dimando. E i malvagi, a quei che tutto dí li accostano non fanno del male; e del bene i buoni? - Sí. - E ci è chi voglia essere da quelli danneggiato, con i quali conversa, piuttosto che giovato? rispondi, o buono uomo; dice anche la legge che si ha a rispondere; c'è chi voglia essere danneggiato? - No. - Su via, tu trai qua me come un che corrompe e fa malvagi i giovani volontariamente, o involontariamente? - Volontariamente, dico io. - Che, o Meleto? tu all'età tua sei tanto piú savio che non io all'età mia, che tu conosciuto hai che i cattivi sempre fanno del male a quelli che li accostano, e i buoni del bene; e io son cosí ignorante, che financo ignoro che se alcuno farò malvagio di quelli che conversano meco, starò nel pericolo di ricevere del male io da lui; cosí ignorante, che fo cotesto male come di' tu, volontariamente? Non te lo credo, né io né nessun altro. Ma, o non corrompo, o, se mai, involontariamente; sicché in tutte e due i casi tu mentisci. E se involontariamente, per tali involontarii peccati non è di legge trarre qua alcuno, ma sibbene averlo a sé da parte, ammonendo e insegnando. Egli è chiaro che piú non farò quel che io fo involontariamente, quando avrò appreso. Ma ti sei scansato dallo starti con me e dall'insegnarmi; non hai voluto; e mi meni qua dove è di legge che coloro siano menati, i quali han bisogno di castigo, ma non d'insegnamento.
XIV.

Ma, Ateniesi, come io diceva, manifesto è che Meleto di queste cose non se n'è curato mai né molto né poco. Nientedimeno di': come affermi tu, o Meleto, che io corrompo i giovani? O non è chiaro, secondo l'accusa che hai scritta, che insegnando a non credere in quelli Iddii nei quali la città crede, ma bensí in strane cose demoniache, e nuove? Non di' tu che, con insegnare cotesto, io corrompo quelli? - Sí, sí, cotesto. - E via, in nome di questi stessi Iddii dei quali si parla, piú chiaro di' e a me e a questi giudici. Io non posso intendere: di' tu ch'io insegno a credere che ci siano Iddii, e ch'io stesso credo ci siano Iddii, e non sono al tutto ateo, non sono cosí reo; ma non quelli che la città crede, ma sibbene diversi, e, perché diversi, tu mi accusi? o proprio affermi che io stesso non credo niente che ci siano Iddii, e che cotesto insegno io agli altri? - Cosí affermo, che tu non credi proprio niente ci siano Iddii. - O maraviglioso Meleto, perché tu di' cosí? sole e luna non credo io dunque che siano Iddii, come credon gli altri uomini? - Per Giove, no, o Giudici: il sole ei dice che è pietra; e la luna, terra. - Anassagora credi tu accusare, caro Meleto? e cosí sprezzi costoro, e li credi cosí salvatichi di lettere, da non sapere che di cotali discorsi i libri di Anassagora, il Clazomenio, sono pieni? Oh bella! i giovani imparano da me questa dottrina, che quando vogliano, con una dramma a dir molto molto, possono comperare dall'orchestra, dando la baia a Socrate se se ne vuol fare bello lui e di dottrina sí strana! Ma, per Giove, ti par cosí di me, che non creda in nessuno Iddio? - Nessuno, nessuno, per Giove. - Non ti si ha credere, o Meleto, e, a vedere, non credi a te né anche tu. Imperocché costui, Ateniesi, mi par molto procace e prosuntuoso, e che coteste accuse le ha proprio scritte per procacia e prosunzione, e perché giovine. Ch'egli ha l'aria di un che compone enimma, per tentare: "Socrate, il sapiente, o conoscerà che io mi contraddico per pigliarmi gioco di lui, o no; e se no, trarrò lui in inganno e gli altri che odono". Ché manifestamente egli mi si contraddice nell'accusa, come se dicesse: "Socrate è reo, perché non crede esserci Iddii, e crede esserci Iddii". Pare un che burla.

 XV.

Guardate con me: ch'ei si contraddice cosí, è chiaro. Tu rispondi a noi, o Meleto: e voi ricordatevi di quello che vi ho pregato in principio, di non mi far rumore se io ragiono nel modo solito. - Ci è alcun uomo, o Meleto, il quale creda esserci cose umane sí, ma uomini no?... (che risponda, o Giudici, e non si dimeni, non ischiamazzi) - c'è alcuno che non creda esserci cavalli, e cose cavalline sí? che non creda esserci sonatori di flauto, e sonate di flauto sí?... Non c'è: o il piú buon uomo, se non vuoi rispondere tu, rispondo io a te e a questi altri. Ma a questo déi rispondere tu: c'è alcuno il quale creda esserci cose demoniache, e demoni no? - Non c'è. - Che bene mi hai fatto! che alla fine tu m'hai risposto un poco: ma sforzato. Ora tu affermi che io credo e insegno esserci demoniache cose, nuove o vecchie che siano? dunque a cose demoniache credo, secondo che di' tu; e giurato l'hai nella tua querela. Ma se io credo in cose demoniache è ben di necessità che io creda anche nei demoni: non è cosí?... Cosí; dacché non rispondi, suppongo che tu consenta. E i demoni non crediamo noi essere Iddii o figli d'Iddii? sí o no? - Eh sí! - Dunque se io credo in demoni come tu affermi, e se i demoni son cotali Iddii, ecco che dico io, tu fai un enimma, per fare il grazioso, affermando che negli Iddii io non ci credo e ci credo. E se poi i demoni son cotai figli spurii d'Iddii, partoriti o da ninfe o da altre che dicono, qual uomo crederebbe esserci figli d'Iddii, e Iddii no? sarebbe tal strana cosa, quale se alcun credesse esserci figli di cavalli e di asini, i muli, e non credesse esserci cavalli e asini. Ma, o Meleto, una delle due: o m'hai scritto l'accusa per pigliarti giuoco di me e mettermi a prova, o per non trovar niuna vera colpa che tu imputare mi potessi; ma che ti venga fatto di persuadere alcuno, anche se di piccola mente, che uno medesimo creda esserci cose demoniache e divine, e demoni e Iddii ed eroi no, non ci è modo né verso.
XVI.

Ma, o Ateniesi, che non sono io reo di quello che mi accusa Meleto di molta difesa mi pare che non ci sia alcun bisogno; queste ragioni bastano. Ma ciò che detto ho dianzi, che io mi sono tirato addosso molto odio e di molti, sapete che è vero. E quest'odio mi perderà, se pur mi può perdere: non Meleto né Anito, sí quest'odio o invidia che perdette e, credo, perderà altri molti e buoni uomini; perché non è a temere per nulla, che in me si arresti. Dirà alcuno: - Non ti vergogni, Socrate, che a tale esercitazione ti sei dato, per la quale stai nel pericolo, presentemente, di morire? - Ma io giustamente risponderei a lui: - Tu non di' bene, o uomo, se credi che uno, valendo pur poco, abbia a ragionare il pericolo della vita o la morte, quando fa alcuna cosa; e non considerare solo se cosa giusta fa o ingiusta, se opera fa di buono o di malvagio uomo. Se no tutti da poco, secondo il tuo discorso, sarebbero quei Semidei morti a Troia; tra gli altri il figlio di Tetide, il quale tanto sprezzò il pericolo per non sostenere vergogna, che, a lui deliberato di uccidere Ettore, dicendo cosí, come penso io, la madre ch'era Dea: "Se tu, o figliuolo, vendicherai la morte di Patroclo, il tuo amico, e ucciderai Ettore, morirai;
Dopo quello d'Ettor pronto è il tuo fato";
egli, a udire questo, facendo picciol conto della morte e del pericolo, e temendo la vile vita se gli amici non vendicava, cosí rispose: "Muoia pure io tosto dopo data la pena al reo, acciocché io qua non rimanga a ludibrio presso alle curve navi, peso alla terra". O credi che siasi angustiato per la morte o il pericolo? - In verità è cosí, o Ateniesi: dove si pone alcuno da sé medesimo, giudicando essere il suo meglio; o dove posto è da colui che comanda; ivi, ancoraché in pericolo, deve stare; non badando niente né a morte né a null'altro, ma sí alla vergogna.

XVII.

Laonde io avrei operato perversamente, se quando i capitani da voi eletti per comandarmi m'ebbero assegnato il luogo e in Potidea e in Anfipoli e in Delio, nel luogo assegnato da quelli io stetti, sí come qualunque altro, contuttoché in pericolo di morire; e poi assegnandomi Dio, come ho pensato e supposto, che io dovessi vivere filosofando ed esaminando me e gli altri, qui, impaurito della morte o che altro mai, io avessi abbandonato la ordinanza. Sarebbe assai grave cosa: e allora ben giustamente si trarrebbe me in tribunale perciò che non credo negli Iddii, disubbidendo all'oracolo e temendo la morte e riputandomi sapiente senza che fossi. Imperocché, cittadini, il temere la morte niente altro è, che parer sapienti senza essere; perché è parer di sapere ciò che non si sa. Ché nessuno sa della morte se ella per avventura non sia all'uomo il maggiore di tutti i beni, e ognuno la teme come se ben sapesse essere quella il maggior dei mali. E non è ignoranza cotesta, la piú vituperevole, creder di sapere ciò che non si sa? E io, cittadini, proprio in questo differisco forse dai molti; e se cosa ci è, per la quale io affermerei essere piú sapiente di alcuno, questa è, che come non so delle cose dell'Ade, cosí anche credo di non saperne; ma il fare ingiustizia e il disubbidire a uno migliore, o Dio o uomo, che mala cosa è, e brutta, so io. Giammai non temerò dunque né fuggirò quello che non so se sia un bene, ma sí piú tosto i mali che so essere mali. Onde se anche mi lasciaste ora non dando retta ad Anito (a lui che disse non bisognava che qua io entrassi, ma, entrato, necessità era uccidermi, annunziandovi che se mai io campassi, seguitando gli insegnamenti di Socrate tutti i vostri figliuoli sarebbero tutti guasti); e se mi diceste anche: - O Socrate, ad Anito noi non diamo retta e ti lasciamo, a questo patto, che non passi piú il tempo in fare di quelle investigazioni, che piú non filosofeggi; se no, se ti cogliamo, morirai -; se, come dico, mi lasciaste, ma a questo patto, io vi direi - Miei cari Ateniesi, vi saluto, e piuttosto ubbidirò a Dio, che a voi; e insino a che io ho fiato e forze non cesserò di filosofare e di dare avvertimenti e consigli a voi e a chiunque mi avvenga, dicendo come son solito: "O ottimo uomo, tu che sei Ateniese, e di una gran città e gloriosissima per sapienza e possanza, non ti vergogni di aver cura delle tue ricchezze acciocché quanto si può elle si multiplichino, e della riputazione e dell'onore; e non avere poi cura e sollecitudine della sapienza e della verità, e dell'anima, acciocché, quanto si può, buona ella divenga?" E se alcuno di voi mi oppone che ben egli ne ha cura, nol lascerò cosí tosto, non anderò via, ma lo interrogherò, ed esaminerò, ed iscruterò; e se mi pare ch'ei non possieda la virtú, pur dicendo di sí, lo riprenderò perocché ha a vile ciò che è pregevolissimo, e ha in pregio ciò ch'è vilissimo. E questo fo con giovani e vecchi, in chiunque mi avvenga, con forestieri e cittadini; e piú con voi cittadini, perché mi siete prossimi piú voi di nascita. Ché sappiate, questo mi comanda l'Iddio; e io credo che niuno maggior bene abbia la città vostra, che questo ministerio che fo all'Iddio, questo mio andare attorno non facendo altro che confortar voi, e giovani e vecchi, a non prender cura né de' corpi né delle ricchezze né prima né piú dell'anima, acciocché, quanto si può, ella divenga buona; dicendo che non da ricchezza viene virtú, ma sí da virtú vien ricchezza ed ogni altro bene, e ai cittadini e alla città. E se, dicendo cotesto, corrompo i giovani, pernicioso è quello che io dico; ma se alcuno afferma che, non cotesto, ma sibbene altro insegno io, afferma quel che non è -. E soggiungerei: - Ateniesi, diate retta ad Anito, o no; mi assolviate, o non mi assolviate; io non farò altrimenti, né anche se molte volte io avessi a morire.
XVIII.

Non rumoreggiate, Ateniesi, per quel che dico, ma state quieti a udire come vi ho pregato; ché, udendo, penso che ne riceverete giovamento. Perché altre cose vi ho a dire io, che forse vi faran gridar forte: ma no, state quieti. Via, sappiate che se ucciderete me son quale dico, piú che me, danneggerete voi medesimi. A me non farebbe niuno danno né Meleto né Anito; ché non potrebbero; imperocché, secondo che credo io, non è lecito che il piú buono possa essere danneggiato dal piú tristo. Ucciderebbe egli, o caccerebbe in bando, o disonorerebbe; ché forse le dette cose egli e alcun altro credono grandi mali; ma io no, male piuttosto è fare quello che costui fa, tentare di uccidere ingiustamente un uomo. Dunque io non difendo ora me per me, come penserebbe alcuno, ma per voi; acciocché condannando me, non pecchiate contro il dono di Dio. In vero, se mi ucciderete, non vi sarà agevole cosa (la dirò anche se fo ridere) trovare un altro come me, messo da Dio addosso alla città come addosso a grande e generoso cavallo, ma per la grandezza un poco sonnolento e abbisognoso di essere destato da sprone: ché con tale ufficio direi che Dio ha deputato me alla città, me che scotendo, persuadendo, rampognando, vi sto tutto il dí addosso. Sí, cittadini, un altro come me non vi nascerà facilmente; e voi, se mi date retta, mi risparmierete. Ma forse, da subita ira presi come sonnecchianti desti per forza, tirando calci, dando retta ad Anito, uccidereste leggermente, e consumereste la rimanente vita dormendo, se pure l'Iddio non mandasse alcun altro, avendo di voi cura. E che io sia alla città un dono di Dio, potete intendere considerando che non par cosa umana che abbia trascurato i fatti miei, la mia casa, già è tanti anni, e curi i fatti vostri stando ai fianchi di ciascuno predicando virtú, come padre o come fratello piú vecchio. E se da questi conforti e consigli mia utilità ne traessi, se ne ricevessi mercede, ci sarebbe una ragione. Ma vedete anche voi, che gli accusatori, pur accusandomi di tante altre cose spudoratamente, non hanno avuto tanta spudoratezza da addurre testimoni che io abbia patteggiato mai o dimandato mercede. Ma io un buon testimone credo di avercelo, che io dico vero, la povertà.
XIX.

Ma parrà strano che io dia consigli in privato andando attorno e affaccendandomi; e non ardisca montar su e in pubblico dare consigli alla città, in cospetto del popolo. La cagione l'avete da me udita molte volte: cioè, ch'ei m'avviene un che divino e demoniaco, come disse nella querela anche Meleto, pigliandosene gioco. Ed è una cotale voce, che, sino da fanciullo, sento io dentro. E tutte le volte che io la sento, mi svolge da quello che son per fare: sospingere, non sospinge mai. Ella mi si oppone che non metta mano nelle cose della città; e mi par che a ragione. Perché, Ateniesi, sappiate bene che se da un pezzo ci avessi messo mano, da un pezzo sarei morto, e non avrei niente giovato né a me né a voi. Non mi andate in collera, se dico il vero; ché uomo non si salva, chiunque sia, a voi o ad alcun'altra moltitudine generosamente contrastando e impedendo che cose ingiuste siano fatte nella città, e contrarie alle leggi; ed è necessità a chi combatte per la giustizia che non viva egli in pubblico, se pur vuole salvarsi per picciol tempo, ma sí privatamente.

XX.

E di ciò vi arrecherò grandi prove io medesimo: parole no, ma sí ciò che apprezzate voi, fatti. Udite dunque quel che m'avvenne, acciocché sappiate che io né cederei a nessuno contro giustizia, per paura di morte, né se morire dovessi subitamente per non cedere. Vi dirò cose giudiziali; dolorose, ma vere. Io non ebbi mai, Ateniesi, alcun maestrato in città; sí fui un del Consiglio. E avvenne che quei della mia tribú Antiochide facessero da Pritani quando voi i dieci capitani che non recuperarono i naufraghi e i morti della battaglia navale voleste giudicare tutti insieme, contro legge, come, passando tempo, vi foste accorti voi medesimi. Allora io solo dei Pritani mi fui opposto a voi acciocché nulla fosse fatto contro le leggi; e votai contro. E già gli oratori lesti a interdirmi, menarmi in carcere; incorandoli, gridando voi: ma io pensai meglio mettermi in pericolo con la legge e con la giustizia, che con voi starmene deliberanti la ingiustizia, per paura di catene e di morte. E questo fu, reggentesi tuttavia la città a popolo. Venuta la oligarchia, un dí i Trenta, alla loro volta, mandarono chiamando certuni, e me, quinto, nella sala del Tolo; e comandarono che dovessimo menare via da Salamina Leonte il Salaminio, affinché morisse: e scelleratezze simili ne ordinaron molte e a molti, volendo quelli riempiere di colpe quanti piú potessero. E allora non a parole mostrai, ma sí a fatti (parrò rozzo), che non cale a me nulla della morte, proprio nulla; ma di non far cosa niuna ingiusta né empia, di questo mi cale bene assai. Perocché sí non mi spaventò quella signoria, contuttoché violenta, che cosa niuna ingiusta facessi: ché, usciti di quella sala, i quattro s'avviarono per Salamina e menarono Leonte; e io mi avviai a casa. E forse io era morto, se quella signoria non la cacciavan giú presto: e di questo che dico, eccovi molti testimoni.
XXI.

E credete che poteva durar tanti anni se io era in pubblici ufficii, sostenendo, come si conviene a dabbene uomo, il giusto, e di quello, com'egli è debito, facendo estimazione piú che di ogni altra cosa? Oh no! Ateniesi; né io né verun altro. E io per tutta la vita, e in pubblico, se feci mai cosa alcuna, tale apparirò, e tale in privato, come a niuno mai concedente nulla contro il giusto, chiunque fosse, a niuno, né anche di questi che i miei calunniatori chiamano miei discepoli. Io poi non fui maestro mai di alcuno: e se, parlando e badando io ai fatti miei, alcuno mi vuole udire, sia giovane sia vecchio, non ho detto no mai; né se mi dàn danaro in mano apro bocca, e se non me ne dànno, no; ma similmente e a ricco e a povero mi profferisco per interrogare se voglion rispondere e stare a udire quello che dico io. E o buono diventi alcuno di loro o no, dire che la cagione sono io non sarebbe giusto; io, che a niuno di loro né ho promesso mai d'insegnare né ho insegnato mai niuna dottrina: e se alcuno dice aver mai imparato o udito da me cosa privatamente, la quale tutti gli altri no, sappiate che non dice vero.
XXII.

Ma perché mai alcuni godono a passar con me il tempo? Voi, o Ateniesi, l'avete udito, e io vi ho detto la verità: essi godono a udire esaminare quelli che si credono sapienti e non sono. Certo ella è cosa non spiacevole. E, come io affermo, a me è stato commesso da Dio che facessi questo: per vaticinii, e per sogni, e per tutti quei modi che divino fato, in ordinar cosa alcuna a uomo, usati mai avesse. E queste, o Ateniesi, sono cose vere e ben si dimostrano: imperocché, se dei giovani quali corrompo io, quali io ho corrotto, bisognava, se alcuni di essi venuti su di anni conobbero che io a loro da giovani detti mali consigli, che, montati quassú, m'avessero accusato e preso di me vendetta; e non volendo essi, bisognava che padri, fratelli, congiunti, se mai quei di loro casa ricevettero da me alcun male, ora se ne ricordassero e se ne vendicassero. Molti di loro sono qui presenti; io li vedo: prima Critone, qui, della mia età e della mia tribú, padre di Critobulo, qui; poi Lisania, lo Sfettio, padre di Eschine, qui; e anche Antifonte qui, il Cefisiano, padre di Epigene. E questi altri qui, i fratelli dei quali conversarono meco: Nicostrato, il figliuolo di Teozotide, fratello di Teodoto (Teodoto poi è morto, e nol pregherà che stia zitto); e Paralo, qui, il figliuolo di Demodoco, del quale era fratello Teagete; e questo Adimanto, figliuolo di Aristone, del quale è fratello questo Platone, qui; ed Eantodoro, del quale è fratello Apollodoro, qui: e vi posso nominare altri molti, alcuno dei quali bisognava bene che Meleto messo avesse innanzi come testimonio, nella sua orazione. E se allora se ne fu dimenticato, lo metta innanzi ora; io gli cedo il luogo; se li ha, parli. Ma, cittadini, troverete tutto il contrario, tutti pronti ad aiutare me, il corrompitore, colui che ha fatto male a quelli di loro casa, come dicono Meleto e Anito. Forse i corrotti avrebbero alcuna ragione di aiutarmi; ma i non corrotti, uomini già vecchi, parenti loro, quale altra ragione hanno, aiutandomi, se non la diritta e la giusta, la quale è, che Meleto essi sanno che mentisce, e che io dico vero?

XXIII.

Via, gli argomenti sono su per giú questi, che io avrei per difendermi, e forse altri simili. E tosto si sdegnerebbe alcuno di voi se si ricordasse che, combattendo per cause di minor momento di questa mia, egli pregò e supplicò i giudici con molte lacrime, menando quassú i suoi piccoli figliuoli acciocché quelli a grande commiserazione movesse, e molti altri famigliari e amici; vedendo che io, ancoraché paia essere nello estremo pericolo, non fo nulla di tutto questo. Ciò pensando, e tosto, siccome punto da me, stizzito, con istizza gitterebbe il voto nell'urna. Ora se alcuno di voi è cosí disposto (non affermo che sia, se è), mi par che io direi convenevolmente, dicendo cosí a lui: - O ottimo uomo, parenti ho anch'io (e qui fa quello che dice Omero: "né di quercia son nato né di pietra, ma di uomini"): parenti ho, e figliuoli; tre, uno giovinetto, e due fanciulli; e pur non menerò quassú niun di loro per pregare che mi assolviate. Ciò non farò io. E perché? Non per orgoglio, o Ateniesi, né per disprezzo di voi (quanto alla morte, se la guardo con coraggio in viso o no, gli è un altro discorso), ma sí perché non mi par bello, per la riputazione mia e vostra e di tutta la città, ciò fare: in quest'età poi, con il nome che ho, vero o falso che sia; ché tutti credono in qualche cosa Socrate essere pur differente dagli altri uomini. Or se cosí fossero quelli che o per sapienza o fortezza o qualsiasi altra virtú paiono segnalarsi tra voi, sarebbe vergogna. E di questi tali io ne ho veduto tante volte (che pur parevano essere alcun che) far cose da maravigliare quando li giudicavano i giudici, credendo come avere a patire assai orribil cosa se morivano, come se, non uccidendoli voi, sarebbero stati immortali. Essi mi pare che alla città facciano vergogna, sí che alcun forestiero supporrebbe che quelli segnalati in virtú tra il popolo ateniese, i quali ei presceglie ai magistrati ed agli altri onori, questi niente differiscano dalle donne. Non conviene dunque fare tali cose né anche noi che mostriamo di valere un poco; né a voi si converrebbe tollerarle, se le facessimo; anzi dovreste far chiaro che colui condannereste molto piú, il quale componesse di cotesti pietosi drammi facendo ridicola la città, che non colui il quale quieto se ne rimanesse.

XXIV.

E, lasciando la riputazione, né mi par giusto il pregare il giudice, né pregando procurar suo scampo, ma sí informare e persuadere lui: imperocché non per cotesto siede il giudice, per dispensar graziosamente i diritti, ma sí per giudicare di quelli; e giurò egli non di favoreggiare chi a lui paresse, ma sí di sentenziare secondo le leggi. Dunque non conviene né che noi avvezziamo voi a spergiurare, né voi voi medesimi; ché pii non saremmo né voi né noi. Onde non vogliate, o Ateniesi, che io faccia cotali cose verso voi, quali né reputo belle, né giuste, né sante: specialmente io accusato di empietà, per Giove, da questo Meleto qui. Imperocché egli è manifesto che se persuadessi voi e con il pregare voi sforzassi, i quali avete giurato, io insegnerei a voi a non credere che ci siano Iddii; e proprio in quel che mi difendo di cotesta accusa, mi accuserei da me medesimo che negl'Iddii non credo. Ma no, non è cosí; io credo, Ateniesi, come niuno dei miei accusatori; e lascio a voi, e a Dio, che giudichiate di me nel modo che sarà meglio per me e per voi.

(FU GIUDICATO COLPEVOLE).


XXV.

Di questo ch'è avvenuto, che voi, o Ateniesi, mi avete condannato, per molte ragioni non mi sdegno, e specialmente perché mi è giunta non inaspettata la cosa; anzi mi maraviglio assai del numero di voti dell'una e dell'altra parte, perché non mi pensava che avesse a essere differenza cosí poca, ma sí bene molta. Ma ora si vede che se soli trenta voti fossero caduti giú nell'altra urna, scampava io. Ma, anche cosí, da Meleto sono scampato; non pur scampato, ma è manifesto a ognuno che, se non fosse montato quassú Anito e Licone, ei dovea pagar mille dramme, per non aver egli avuto la quinta parte dei voti.
XXVI.

Colui vuole dunque la mia morte? Sia. Ma che pena mi assegnerà da me, o Ateniesi? È chiaro: quella che merito. E quale pena debbo patire o pagare io, perciò che in mia vita non mi quietai mai dalla voglia di apprendere; perciò che non curando di quel che i piú curano, danaro, governo della casa, esser capo di milizia o capopopolo, e gli altri maestrati; e non curando delle congiurazioni e sedizioni nella città, giudicandomi di piú temperato animo che non si convenisse perché, immischiandomici dentro, salvo rimanessi, là non andai, dove andando non poteva giovar niente né a voi né a me, ma dove poteva fare a ciascuno privatamente il maggior benefizio, là andai; provandomi di persuadere ciascun di voi che non dovesse curare delle sue cose prima che di sé medesimo, acciocché buono divenisse e savio quanto potesse, né delle cose della città prima che della città, e via via a questo modo? Adunque quale pena merito io, se sono cosí? non pena, ma premio, se io mi devo assegnare quel che in verità merito: e un premio che mi convenga. E che si conviene a povero e pur benefico uomo, il quale ha bisogno di non intendere ad altro che a confortare voi al bene? Nulla è piú che si convenga, come l'essere cotale uomo nutricato nel Pritanéo; molto piú che se alcun di voi con cavallo o biga o quadriga vinto avesse nei giochi olimpici. Imperocché quello vi fa parer felici, io vi fo essere; e quello non ha niente bisogno di cibo, io sí. Se mi devo dunque assegnare quel che merito, questo mi assegno: vitto nel Pritanéo.
XXVII.

Dicendo cosí, vi parrà forse che io dica per quel sentimento medesimo che quando ho detto della commiserazione e supplicazione, per orgoglio. Ma ciò non è, Ateniesi; piuttosto è che io sono persuaso che mai non ho fatto torto a nessuno volontariamente; ma di questo non persuado voi, perocché poco tempo è che conversiamo insieme. Ché se presso voi fosse una legge, com'è presso altre genti, che non si possa giudicare della morte in un solo dí, ma sibbene in molti, sareste persuasi, credo: ora in sí picciol tempo non è facil cosa dissipare grandi calunnie. Ma persuaso io di non aver fatto torto a nessuno, non ho voglia né anche di fare torto a me medesimo e dire contro me che son degno di patire del male, e condannarmi da me. E per paura di che? che non riceva la pena che vuol Meleto, la quale, dico, non so se è male né se è bene, e per scegliermi in cambio qualche pena la quale so essere male davvero. E quale? la carcere? E perché devo vivere in carcere, sommesso al sovrastante magistrato, agli Undici? Danari forse? e stare in ceppi insino a che non avrò pagato? Ma gli è il medesimo che la carcere, ché danari da pagare non ne ho. Mi condannerò all'esilio? e forse mi condannereste voi a questa pena. Ma dovrei essere accecato dall'amore della mia anima, o Ateniesi, se fossi sí irragionevole che non potessi ragionare cosí: che se voi, che pure siete miei cittadini, non siete stati buoni di sopportare la mia conversazione e i miei discorsi, ma vi furon gravi e odiosi tanto, che cercate di liberarvene; come li sopporteranno gli altri? Oh no! E poi la bella vita che farei io, a questa età, tramutarmi sempre d'una città in altra, sempre cacciato via? perché so bene che dovunque vada, se io parlo, mi ascolteranno, come qui, i giovani: e se non li voglio, essi mi cacceranno via, persuadendo a ciò fare i vecchi; e se li voglio, mi cacceranno via i padri e parenti loro, per cagion di loro.

XXVIII.

Dirà forse alcuno: - Ma non sei buono, Socrate, di vivere tacendo, stando quieto dopo andatone via da noi? - Ma fare intendere ad alcuni di voi questo, è la piú malagevole cosa: perché se dico che questo è disubbidire all'Iddio, e che è impossibile che me ne stia quieto, pensando che io voglia ironeggiare non mi crederete voi; e se dico ch'è grandissimo bene a un uomo far ogni dí ragionamenti su la virtú e quelli argomenti su i quali mi udivate conversare ed esaminare me e gli altri (la vita senza esame è indegna di uomo); se dico questo, tanto meno mi crederete voi. E pure cosí è, come dico; ma non è cosa facile persuadervene. Ma, da altra parte, anch'io non mi sono assuefatto a credermi meritevole di alcun male. Onde se avea danari, mi multava in danari, quanti ce ne voleva; ché non me ne venia danno. Ma non ne ho: salvo che non vi contentiate di quel tanto che posso pagare io (una mina d'argento la potrei forse pagare). Dunque io multo me di tanto. Platone ch'è qui, Ateniesi, e Critone e Critobulo e Apollodoro vogliono che io mi multi di trenta mine, rimanendo essi mallevadori. Dunque io multo me di tanto. E v'entran mallevadori del denaro questi qui; persone delle quali ci è da fidarsi.

(FU CONDANNATO A MORTE).

XXIX

Per non aspettare un poco di tempo, voi, Ateniesi, nome avrete e biasimo da coloro che voglion vituperare la città, di avere ucciso Socrate, uomo sapiente: ché mi diranno sapiente, anche se non sono, quelli che vi voglion fare onta. La cosa vi veniva da sé, che io morissi, se aspettavate un poco: perché, guardate la età, come già è lontana dalla vita, e vicina alla morte. Ciò dico, non a tutti voi, ma sí a quelli che hanno votato la mia morte. E a questi stessi dico: - Credete, o Ateniesi, d'avermi colto di quei cotali argomenti sprovvisto con i quali poteva persuadere voi, se credeva che bisognasse dire e fare di tutto pur di scampare dalla condanna? Oh no! sprovvisto sí, non di argomenti, ma sí di audacia e impudenza e non disposto niente a parlare in quei tali modi a voi dolcissimi a udire, piangendo e lamentandomi e altre molte cose facendo e dicendo di me indegne, dico, ma quali a udire vi hanno avvezzato gli altri. Ma né allora io credeva che bisognasse far cosa niuna servile, per paura del pericolo, né ora mi pento di essermi cosí difeso; anzi piú assai volentieri scelgo di essermi difeso in questo modo, e morire, che non in quello, e vivere; perché né in tribunale e né anche in guerra non conviene, né a me né ad alcun altro, far di tutto pur di scampare della morte; perché è certo che molte volte in battaglia uno scamperebbe della morte o se gittasse le armi o se verso gl'inseguitori egli supplichevole si volgesse, e che ci è nei singoli pericoli molti modi per fuggire la morte sí veramente che dia il cuore di fare e dire ogni vile cosa. Ma, Ateniesi, badate non sia malagevole, non già questo, il fuggir la morte; ma sí malagevole piú assai il fuggire la malvagità, la quale corre piú veloce della morte. E ora io, sí come tardo e vecchio, colto fui da quella che è piú tarda; i miei accusatori, sí come piú gagliardi e feroci, da quella che è piú veloce. E io me ne vado, condannato da voi a essere morto; costoro, condannati dalla verità a essere malvagi e ingiusti; e io accetto la pena mia, e questi la loro. Dovea forse essere cosí, e credo che ciascuno ricevuto ha sua misura.

XXX.

E ora a voi, che m'avete votato contro, voglio vaticinare quel che vi succederà dopo, perché sono già nell'ora che piú gli uomini vaticinano, essendo presso alla morte. Dico, a voi che mi avete ucciso, che tosto caderà sopra voi vendetta, piú aspra molto, per Giove, che non quella che presa avete di me, uccidendomi. Ché voi avete fatto questo, immaginando liberarvi dal dover rendere ragione di vostra vita; ma vi succederà tutto il contrario, vi dico, perché accusatori contro voi se ne leveranno piú molti, i quali ratteneva io, non accorgendovene voi; e piú saranno aspri, e v'inriteranno piú, quanto piú sono giovani. Ché se pensate, uccidendo uomini, rattenere alcuno dal rampognare a voi la non diritta vita, pensate stoltamente: imperocché non è cotesta liberazione né possibile per niuno modo, né bella; ma quella è bellissima e molto agevole, che è, non in fare impedimento agli altri, ma sí in procurare di render quanto si può buoni sé medesimi. Dopo questo vaticinio fatto a voi che m'avete votato contro, mi accommiato da voi.

XXXI.

Ma con voi, che avete votato l'assoluzione, ragionerei volentieri di una cosa che m'è avvenuta, mentre i magistrati d'altro si occupano, e non è peranco l'ora di andare là dove mi aspetta la morte. Rimanete dunque con me, questo tempo: ché nulla vieta che noi conversiamo insieme, insino a tanto che è lecito: perché io voglio mostrare a voi, come ad amici, che significa mai quello che m'è avvenuto. M'è avvenuto, o giudici (chiamandovi giudici, parlo dirittamente) una certa cosa maravigliosa; perocché la solita vaticinatrice voce, quella del demone, tutto il tempo innanzi la sentiva io molto frequentemente, contrariandomi pure in piccole cose, se io stava per non far bene. Ma ora mi succedono cose, come voi stessi vedete, le quali si crederebbero e si credono gli estremi mali, e nondimeno né stamane uscendo di casa mi contrariò il segno dell'Iddio, né salendo qua in tribunale, né mentre difendevami qualunque cosa fossi per dire, benché, parlando altre volte, sovente mi fermasse la parola a mezzo. Ma ora, durante questo processo, checché facessi o dicessi, non mi contrariò mai. Quale è la cagione, quella che penso io? Ve la dirò. E' pare che quel che m'è accaduto sia un bene, e non c'è caso che pensiamo dirittamente noi, quanti crediamo che il morire sia un male. Una gran prova è che non poteva il solito segno non contrariarmi, se io era per far cosa che non fosse buona.
XXXII.

E vediamo per questa altra via d'intendere come c'è da sperare molto che sia un bene. Imperciocché morire è una delle due cose: o come non esser nulla, e il morto non ha piú niuno sentimento di niuna cosa; o, secondoché dicono, è un cotal transito e tramutazione dell'anima di questo luogo qui ad un altro luogo. E se non c'è niuno sentimento, ed è come un sonno allora che dormendo non si vede né anche sogno niuno, sarebbe un guadagno maraviglioso la morte. Perciocché io penso che se mai alcuno scegliesse una tal notte, nella quale si fosse addormentato cosí profondamente ch'egli né anche veduto avesse alcun sogno, e contrapponendo a quella le altre notti e giorni di sua vita, ed esaminando, dovesse poi dire quante notti e giorni passati ha in sua vita meglio e piú dolcemente di quella; io penso che, non pure un privato uomo, ma altresí il gran Re queste troverebbe facili assai a contare in comparazione a tutti gli altri giorni e alle altre notti. E se tale è la morte, un guadagno essa è, io dico; imperocché cosí appare nulla piú essere tutto il tempo, che una notte. Se poi la morte è come peregrinazione di qua ad un altro luogo, e vero è tutto quel che si dice, che là abitano tutti i morti, quale maggior bene di questo potrebbe essere mai, o giudici? Imperocché se alcuno, pervenendo nell'Ade, liberatosi di questi che qua si dànno nome di giudici, troverà i veri giudici, i quali si dice che anche là giudicano, Minosse e Radamanto ed Eaco e Triptolemo, e tutti gli altri semidei i quali in vita loro furono giusti; forse che sarebbe da disprezzare cotale peregrinazione? o, al contrario, a qual prezzo non torrebbe qualunque di voi potere conversare con Museo e Orfeo e Esiodo e Omero? Morire molte volte voglio io, se tali cose sono vere. Oh la conversazione maravigliosa che là sarebbe la mia, quando mi abbattessi in Palamede, e Aiace di Telamone, e in alcun altro di quelli antichi, morti per ingiusto giudicio! Certo, a paragonare i casi miei ai loro, non mi dispiacerebbe; e specialmente, che è il meglio, a passare il tempo esaminando e perscrutando quei di là, come faceva questi di qua, e vedere anche tra quelli chi è savio, e chi crede di essere ma non è. Perocché, quanto non pagherebbe alcuno di voi, o giudici, se interrogare colui potesse che la grande oste menò contro a Troia, o Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e donne che potrei nominare io; e ragionare e conversare là con essi, ed esaminare? Tale beatitudine sarebbe ella, che forte cosa è a dire. Né mai avviene per cagione di cotesto esame che quelli di là uccidano; perocché, oltre alle altre cose onde piú felici sono quelli di là che questi di qua, quelli sono perpetuamente immortali, se vero è ciò che si dice.

XXXIII.

Ma dovete sperar bene anche voi, o giudici, in cospetto alla morte: e, se non altro, credere per vero solo questo: che a colui che è buono non accade male alcuno, né vivo né morto, e che gl'Iddii non trascurano le cose sue. Né quello che a me è avvenuto ora, è per caso: perocché chiaro vedo che il morire ed esser liberato dalle brighe del mondo per me era il meglio. Perciò non mi contrariò mai il segno dell'Iddio; e io stesso non sono niente in collera con quelli che m'han votato contro e con gli accusatori, quantunque non con questa intenzione m'avessero votato contro e accusato, ma sibbene credendo farmi del male. E in ciò sono da biasimare.

Ma ad essi io mi rivolgo ora, e cosí li prego:

I miei figliuoli, quando saranno giovani, castigateli, o cittadini, tormentandoli come io voi, se vi paiono piuttosto aver cura del danaro o d'altro, che della virtú: e se vi paiono voler mostrare d'esser qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, come io voi, per ciò che non curano di quel che devon curare e si credono valere qualche cosa, non valendo nulla. Se ciò farete, avremo ricevuto da voi quello che giusto era che ricevessimo, io e miei figliuoli.
Ma già ora è di andare: io, a morire; voi, a vivere. Chi di noi andrà a stare meglio, occulto è a ognuno, salvoché a Dio.